Riceviamo e pubblichiamo il Comunicato stampa dell’Unione Sanità Convenzionata.
Scrive il Presidente U.S.C. – Michele Cataldi:
“Nei giorni scorsi è stato diffuso un comunicato regionale che annuncia, con toni rassicuranti, un significativo miglioramento delle liste d’attesa in Basilicata.
Il Tempo medio di attesa ponderato (TMAP) sarebbe sceso del 14,3%, le prestazioni erogate sarebbero aumentate del 10% e oltre il 90% delle prestazioni monitorate mostrerebbero una prima disponibilità entro 120 giorni, in particolare nella classe P, quella “programmabile”.
Sembrerebbe, a leggerlo così, che la Regione abbia trovato la formula magica per risolvere un problema che affligge cittadini e territorio da anni.
Ma la lettura del Piano Nazionale di Governo delle Liste d’Attesa (PNGLA) e l’esperienza quotidiana dei pazienti lucani restituiscono un quadro molto meno brillante.
Il PNGLA parla chiaro: il monitoraggio dei tempi di attesa deve riguardare esclusivamente i primi accessi, cioè le prime visite e le prime prestazioni di diagnostica strumentale.
Sono queste le prestazioni che determinano l’ingresso del cittadino nel percorso di cura.
Ed è sempre il PNGLA a stabilire che le classi di priorità da monitorare sono tre: U (urgente, entro 72 ore), B (breve, entro 10 giorni) e D (differibile, entro 30 o 60 giorni a seconda della prestazione).
La classe P, quella “programmabile”, riguarda invece i controlli successivi, i follow-up, le rivalutazioni, e proprio per questo non è oggetto di monitoraggio istituzionale: perché non misura lo stato di salute delle liste d’attesa, ma semplicemente la capacità del sistema di richiamare chi è già entrato nel percorso assistenziale.
Non a caso il PNGLA precisa espressamente che ai fini del monitoraggio “sono prese in considerazione esclusivamente le prenotazioni dei primi accessi”.
Dunque, quando il comunicato regionale pone l’accento quasi esclusivamente sulla classe P, sta scegliendo di mostrare solo la parte meno dolorosa del fenomeno, quella che riguarda i controlli e i follow-up.
Ma il cuore del problema non è lì.
Il vero termometro della sofferenza dei cittadini si trova nelle classi U, B e D: nelle prestazioni urgenti che devono essere garantite entro pochi giorni, nelle visite brevi prescritte quando un medico teme che il tempo possa essere un fattore critico, nelle prestazioni differibili che rappresentano l’inizio di un percorso diagnostico spesso decisivo.
Ignorare questi dati significa raccontare un’altra realtà, che non assomiglia alla vita di chi sta cercando una risposta a un dolore improvviso, a un sintomo che preoccupa, a un sospetto che toglie il sonno.
È lì, nell’attesa del primo accesso, che si misura la tenuta di un sistema sanitario.
È lì che un cittadino capisce se può affidarsi alle istituzioni o se dovrà arrangiarsi, pagare di tasca propria, posticipare una diagnosi o convivere con un’incertezza che pesa quanto una malattia.
Ed è proprio lì, purtroppo, che oggi i numeri continuano a mancare e si ignorano perfino le anomalie segnalate.
C’è poi un altro elemento, altrettanto rilevante, che nelle comunicazioni ufficiali non trova spazio: i cosiddetti “percorsi di tutela”.
Quando un’Azienda sanitaria non è in grado di garantire una prestazione nei tempi massimi previsti per la classe di priorità indicata dal medico, la normativa nazionale impone di attivare immediatamente un percorso alternativo.
Lo dice il PNGLA, lo ribadisce il decreto-legge 73/2024: al momento del contatto con il CUP, il cittadino deve essere preso in carico e deve ricevere una proposta concreta per ottenere comunque la prestazione, anche attraverso altre strutture, incluso il privato accreditato, sulla base di tariffe nazionali predefinite.
Questo obbligo esiste per un motivo ovvio: il tempo non è una variabile neutra quando si parla di salute.
Eppure, dei percorsi di tutela nella comunicazione regionale non c’è traccia.
Non viene detto quali siano, quanti ne siano stati attivati, come siano stati utilizzati, né quanti cittadini ne abbiano beneficiato.
A complicare ulteriormente il quadro c’è il nodo del piano di recupero delle liste d’attesa adottato con la DGR 513/2025.
L’Allegato A della delibera elenca migliaia di prestazioni da recuperare, suddivise per tipologia e per quantità.
Ma a oltre tre mesi dalla sua approvazione, molte strutture accreditate segnalano che quelle prestazioni non vengono mai assegnate tramite CUP.
Un caso su tutti: una struttura del territorio avrebbe dovuto recuperare 1.700 TAC, ma nelle agende non è mai comparsa una sola prenotazione.
Le prestazioni esistono sulla carta, ma non compaiono nei flussi reali.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: quei numeri rappresentano davvero una domanda da recuperare, oppure sono stati inseriti senza una verifica puntuale della loro effettiva esistenza?
Il risultato è un paradosso: da un lato, comunicazioni trionfali che parlano di miglioramenti generalizzati; dall’altro, cittadini che continuano ad attendere mesi per una prima visita specialistica o un esame diagnostico, senza che venga loro attivato un percorso di tutela.
Senza contare che la mancata assegnazione delle prestazioni previste nel piano di recupero solleva dubbi legittimi sull’utilizzo delle risorse dedicate, che per legge dovrebbero essere impiegate esclusivamente per ridurre i tempi di attesa.
A questo punto, il ruolo dei Sindaci diventa centrale.
Sono loro, per legge, le autorità sanitarie locali e i primi garanti della salute dei cittadini.
Sono loro a conoscere meglio di chiunque altro le difficoltà delle famiglie, dei malati cronici, degli anziani che non riescono ad accedere in tempi utili alle cure.
Ed è a loro che spetta oggi il compito più delicato: chiedere che la Regione pubblichi i dati veri, quelli che riguardano le classi U, B e D, prestazione per prestazione, territorio per territorio.
Chiedere che venga verificata la corrispondenza tra le prestazioni indicate nel piano di recupero e quelle effettivamente erogate.
Chiedere un rendiconto trasparente sull’utilizzo dei fondi vincolati.
E promuovere, se necessario, la nascita di un organismo terzo di monitoraggio, una consulta territoriale che coinvolga Comuni, aziende sanitarie, strutture accreditate, associazioni civiche e Difensore civico.
Non si tratta di polemica, ma di responsabilità.
E non si tratta di negare eventuali passi avanti, ma di pretendere che siano misurati con gli strumenti giusti, quelli che la normativa nazionale impone.
Perché se davvero i risultati sono così incoraggianti, allora non c’è motivo di avere paura della trasparenza.
Non è una guerra di categorie, è una questione di verità e c’è una domanda semplice che parte dal territorio: perché non si pubblicano i dati completi su U, B e D?
Perché le prestazioni del piano di recupero non arrivano nelle agende CUP?
Finché queste risposte non arriveranno, i comunicati trionfali resteranno un esercizio di retorica, più che un servizio alla verità.
E i lucani, ancora una volta, continueranno a misurare sulla propria pelle la distanza tra i numeri della politica e la realtà delle corsie, delle sale d’attesa e dei viaggi della speranza”.

































